Marco Vigna http://www.nuovomonitorenapoletano.it/ dicembre 2015
Il falso mito asburgico
L’immagine oleografica della Trieste asburgica è sovente quella segnata dai falsi stereotipi e miti della cosiddetta “Austria felix”, che la presentano fantasiosamente nei termini di un paese per eccellenza “ordinato”, che sarebbe stato saggiamente amministrato dal governo imperiale e con profonda concordia sociale ed etnica.
La verità è ben diversa, essendo largamente condiviso nella storiografia il parere che il cosiddetto “mito asburgico” sia essenzialmente un’illusione se non un costrutto mistificatorio.
Si può citare qui, fra i molti autori disponibili, il “padre nobile” della storiografia americana sull’Austria, Arthur J. May, che nella sua fortunata opera sul tramonto della dinastia degli Asburgo (1), è reciso nel giudicare lo stato imperiale come in preda ad una grave crisi interna. Egli pertanto respinge il mito asburgico, non avendo problemi a riconoscerlo quale sorto posteriormente all’impero per cause accidentali ed esterne allo stesso.
May ritiene che questa falsificante rievocazione nostalgica compaia soltanto quando Stalin s’impadronisce, al termine della seconda guerra mondiale, di gran parte dei vecchi territori imperiali.
L’idea di una “Austria felix” è decisamente antistorica, poiché nasconde la realtà effettiva dell’impero asburgico, segnato dall’oppressione assieme etnica e sociale ed in cui l’esercito e la polizia erano il puntello del regime, assieme alla consapevole contrapposizione delle diverse etnie fra di loro, voluta ed orchestrata dal potere centrale.
Un semplice esempio, ovvero un episodio quasi scomparso dalla memoria collettiva (a prova del carattere discorsivo del “mito asburgico” e della fallacia della narrazione orale e dell’immaginario di una comunità), può aiutare a comprendere la natura effettiva dello stato asburgico. Si tratta dello sciopero dei fuochisti del Lloyd, schiacciato nel sangue dai militari imperiali con la messa in stato d’assedio di tutta Trieste ed un vero assalto dell’esercito condotto ad un intero quartiere.
La repressione dell’insurrezione triestina del 1902 fu una delle cause scatenanti della prima guerra mondiale, poiché contribuì a determinare le successive scelte aggressive dello stato maggiore e dei vertici politici dell’impero asburgico.
Il massacro degli scioperanti e lo stato d’assedio imposto a Trieste
Il 1 febbraio 1902 era stato proclamato a Trieste lo sciopero dei trecento fuochisti delle navi del Lloyd, in quel periodo a terra, che protestavano però anche in nome dei quattrocento compagni imbarcati. La protesta progressivamente s’allargò alle diverse categorie dei lavoratori, sino a divenire uno sciopero generale cittadino.
Tale decisione fu presa dopo che il luogotenente imperiale del cosiddetto Litorale austriaco (unità amministrativa che comprendeva la Contea di Gorizia e Gradisca, il Margraviato d’Istria e la città di Trieste), il conte Leopold von Goëss, aveva chiesto l’intervento delle autorità militari ed imposto l’impiego di fuochisti provenienti dalla flotta da guerra sulle navi del Lloyd, che così avevano potuto riprendere l’attività. Lo sciopero generale fu proclamato mercoledì 12 febbraio ed entrò in vigore nel giovedì del 13.
La giornata seguente, venerdì 14 febbraio, i dirigenti del partito socialista triestino tennero un pubblico comizio al Politeama Rossetti, il teatro più grande della Trieste dell’epoca, a cui parteciparono Carlo Ucekar e Valentino Pittoni ed, in rappresentanza dei fuochisti in sciopero, Ferdinando Castro.
La riunione era stata compiuta con il permesso delle autorità. Dopo i discorsi dei vari relatori, gli scioperanti scesero in un ordinato corteo lungo l’Acquedotto e quello che allora si chiamava Contrada del Corso (oggi Corso Italia).
La manifestazione si svolgeva pacificamente, quando intervennero i reparti della 55° brigata di fanteria agli ordini del generale Conrad von Hoetzendorf. I soldati erano muniti del fucile Mannlicher repetier Gewehr, all’epoca assai moderno, ed erano stati spediti a fronteggiare gli scioperanti con le armi cariche e le baionette inastate. Era stato inoltre proclamato lo stato d’assedio, ossia imposta la legge marziale.
Le truppe avevano avuto l’ordine d’impedire ad ogni costo che i manifestanti giungessero sino a quella che allora si chiamava piazza Grande (l’attuale piazza Unità di Trieste), in cui sorgeva il palazzo del governo. Un primo assalto si ebbe quando i reparti caricarono alla baionetta i dimostranti presso la vicina piazza della Borsa.
Questo fu soltanto l’antefatto degli eccidi che seguirono, mediante violente scariche di fucileria tirate ad altezza d’uomo e nel mucchio degli scioperanti. Il primo massacro avvenne all’imboccatura di piazza Grande, con il fuoco aperto da una compagnia comandata da tale capitano Köppel, pare su ordine del luogotenente del Litorale, il conte von Goëss.
Un’altra scarica fu fatta partire da un altro reparto asburgico nella vicina piazza Verdi, dove parte della folla che scappava dalla compagnia del capitano Köppel aveva cercato scampo: i soldati qui spararono proprio sui fuggiaschi.
Durante la notte, avvenne un scambio di telegrammi fra il luogotenente governatore Goëss ed il governo austriaco. Il potere centrale temeva che si potesse avere una saldatura fra il socialismo triestino, che sebbene internazionale di tendenze era comunque egemonizzato da italiani nei suoi vertici ed abbastanza aperto verso le tematiche irredentiste, e gli irredentisti veri e propri. Es dringt ein Exempel statuiren: «Bisogna dare un esempio».
Con questa frase, che era un ordine esplicito, Vienna aveva chiuso le sue comunicazioni con Trieste nella notte del 14 febbraio.
La mattina di sabato 15 febbraio erano giunti in città altri reparti militari asburgici, inclusa cavalleria, provenienti da Klagenfurt, Villaco e Lubiana: significativamente, si fecero affluire rinforzi da lontano e da località in cui non vivevano italiani, anziché dalle ben più vicine Istria e Gorizia. Furono addirittura messa alla fonda nel porto tre corazzate giunte in tutta fretta da Pola, mentre al largo incrociavano altre unità navali minori.
Gli ufficiali avevano avuto istruzioni di far fuoco senza preavviso, il che avvenne ancora una volta presso piazza Grande, con altri morti fra gli scioperanti. Poi le truppe ricevettero l’ordine d’occupare militarmente parte di Cittavecchia, in direzione di San Giusto, all’epoca un quartiere poverissimo, il che avvenne mentre gli abitanti cercavano di resistere gettando sassi e mattoni. Anche qui l’esercito sparò sui cittadini triestini e si ebbero altri morti.
Il numero delle vittime fu imprecisato: almeno 14, poiché questi furono quelli registrati fra gli scioperanti in conseguenza delle violenze della truppa, ma la cifra non è completa e risulta certamente inferiore al vero, non tenendo neppure conto di quelli che perirono successivamente per le ferite riportate, per non parlare dei feriti.
Secondo alcune stime, il totale generale dei morti ammontò a molte decine e quello dei feriti a diverse centinaia. Naturalmente s’ebbe una sequela di arresti ed a molti capidella protesta fu imposto di lasciare la città. La polizia si scatenò fra l’altro in una sorta di caccia agli anarchici, approfittando del fatto che erano molto più deboli politicamente dei socialisti stessi.
Lo stato d’assedio in tutta Trieste (con sospensione, fra l’altro, del diritto di riunione e di manifestazione) rimase in vigore a lungo, precisamente dal 14 febbraio 1902 sino al mese d’aprile dello stesso anno. La città si trovò presidiata militarmente, poiché von Hoetzendorf organizzò diverse pattuglie armate di due uomini, generalmente costituite da un marinaio e da un fuciliere o da un poliziotto, che percorrevano le vie di Trieste giorno e notte.
Il carnefice dell’impero, il boia Josef Lang, (lo stesso che poi impiccò Cesare Battisti) fu spedito a Trieste con i suoi aiutanti e con i suoi strumenti di morte, qualora vi fosse stato bisogno del suo intervento. (2)
Irredentismo e socialismo
I timori delle autorità imperiali per un collegamento fra il grande sciopero e l’irredentismo non erano dovuti soltanto alla loro italofobia. In verità, l’irredentismo è sorto repubblicano, non senza simpatie per il socialismo.
I suoi fondatori furono Matteo Renato Imbriani (a cui si deve il conio del termine irredenti impiegato in riferimento agli italiani ancora sottoposti alla dominazione asburgica) e Giuseppe Avezzana, ambedue repubblicani.
La Società Italia Irredenta ebbe per presidente un garibaldino, appunto il generale Avezzana, ed ottenne l’appoggio di Giuseppe Garibaldi stesso e di Saffi.
La prima fase dell’irredentismo appare infatti egemonizzata da repubblicani d’ispirazione mazziniana (oltre ad Imbriani ed a Avezzana, comparivano Felice Cavallotti, Salvatore Barzilai, Aurelio Saffi, il Carducci stesso ecc.), che hanno in Garibaldi il proprio punto di riferimento ideale. Un irredentismo piuttosto diverso s’affianca (ma non si sostituisce!) a partire dalla firma della Triplice Alleanza (1882). (3)
Un grande storico, Gioacchino Volpe, in una sua opera monumentale ha ricostruito un quadro d’insieme complessivamente corretto dell’evoluzione dell’irredentismo e della sua diversificazione interna, legata alle particolarità locali ed alle differenze politiche. (4)
Il Volpe è senz’altro condizionato in qualche misura dalle sue personali posizioni ideologiche, ma la sua ricostruzione dell’irredentismo, a cui dedica un intero capitolo del suo capolavoro sulla storia nazionale italiana (il capitolo secondo del III volume, oltre a buona parte del sesto del medesimo volume) è onesta intellettualmente. Ciò che qui interessa è che questo illustre maestro delinea chiaramente come il movimento irredentista nasca repubblicano e politicamente spostato a sinistra: il Volpe non esita a riconoscerlo apertamente, pur essendo un monarchico vicino al fascismo.
Il socialismo nella Venezia Giulia era assieme cosmopolita e patriottico, nel senso che la sua ideologia di per sé internazionale conviveva con la difesa la componente nazionale italiana (maggioritaria nella regione ma minacciata dall’azione di snazionalizzazione promossa da Vienna, tesa ad imporre una sua germanizzazione e slavizzazione forzate), quale necessario ambito d’emancipazione anche sociale e civile. Questo binomio fra cosmopolitismo e patriottismo italiano, per nulla negatore dei diritti della minoranza slava, affiancava il socialismo giuliano a quello del Trentino, guidato e rappresentato da Cesare Battisti. (5)
Per portare un altro esempio, il giornale socialista “La terra d’Istria” si batteva a favore dell’istituzione d’un ginnasio di lingua italiana a Pola, città che stava subendo invece un processo di snazionalizzazione artificiale, orchestrato dalle autorità governative. Nei comizi, nei giornali, nei manifesti, i socialisti usavano l’italiano, malgrado molti degli iscritti ed elettori fossero slavi, tanto che nel 1902 tutti i gruppi socialisti locali dell’Istria erano affiliati alla Sezione italiana adriatica.(6)
D’altronde le elezioni comunali a Trieste erano sempre regolarmente vinte dal partito liberal-nazionale italiano, che era notoriamente irredentista per quanto non potesse dichiararlo in modo aperto, per cui Vienna paventava una saldatura fra il socialismo e l’irredentismo in senso stretto, ossia che lo sciopero generale finisse per diventare un’insurrezione aperta contro il potere imperiale.
La netta maggioranza della popolazione triestina era infatti costituita da italiani, sebbene il loro numero fosse andato calando in seguito alle politiche dell’impero tese a slavizzare la città. (7)
Lo sciopero di Trieste e le origini della prima guerra mondiale
È noto che Conrad von Hötzendorf, un vero e proprio italofobo (come molti altri importanti militari, politici, funzionari austriaci dell’epoca), affermò ed espresse in decine e decine di rapporti, lettere ecc. la sua personale convinzione che le imponenti manifestazioni dei lavoratori avessero avuto l’appoggio degli irredentisti italiani. Tale sua opinione fu talmente radicata, che la repressione sanguinosa dello sciopero triestino rappresentò per questo alto ufficiale imperiale uno spartiacque nelle sue idee.
Questo generale divenne da quel momento un accanito sostenitore d’una guerra, offensiva e senza preavviso, contro il regno d’Italia, malgrado questo fosse alleato dell’Austria. Il von Hötzendorf non fu l’unico a trarre queste conclusioni dall’insurrezione di Trieste del 1902, poiché all’interno delle alte gerarchie militari e politiche asburgiche molti altri si convinsero che l’unico modo per l’impero di sopravvivere fosse d’attaccare e distruggere l’Italia e la Serbia.
Lo storico Lawrence Sondhaus, direttore dell’Istituto per gli studi sulla guerra e la diplomazia dell’università di Indianapolis, ritiene che la repressione sanguinosa dello sciopero di Trieste sia stato un episodio cruciale nelle scelte politiche e strategiche di von Hötzendorf nei confronti dell’Italia («The episode marked a turning point in Conrad’s views of Italy»), nelle quali egli si pose nelle stesse posizioni dell’erede al trono e di fatto reggente, l’arciduca Francesco Ferdinando («This brought him even more into line with the views of Francis Ferdinand, an italophobe and no friend of the T,riple Alliance.»)
Sondhaus accomuna sia von Hötzendorf sia Francesco Ferdinando d’Asburgo in questa “italofobia”, ed aggiunge che costoro non erano gli unici a pensarla in tal modo («They were not alone in their thinking»).(8)
Le proposte di von Hötzendorf d’attaccare a tradimento l’Italia dopo il terremoto di Messina del 1908 (la prima volta) e durante la guerra di Libia nel 1911 (la seconda volta), ebbero un ruolo decisivo nell’allontanare lo stato italiano da un alleato così infido come l’Austria.
Il generale Hötzendorf divenne inoltre sempre dal 1902 ossessionato anche dall’idea di una guerra d’aggressione, per quanto ritenuta “preventiva”, anche contro la Serbia, che egli propose nel 1906, nel 1908, nel 1912, nel 1913 ed ancora nel 1914. Egli colse l’occasione dell’attentato di Sarajevo per scatenare un conflitto contro lo stato serbo a cui egli aspirava da molti anni.
Lo sciopero di Trieste del 1902 divenne in tal modo una della cause scatenanti del primo conflitto, poiché rafforzò le tendenze belliciste dell’impero asburgico ed il tentativo da parte della sua oligarchia dominante di conservare il proprio potere, scosso dalle volontà nazionali dei popoli soggetti, attraverso il ricorso alla forza.
L’impero asburgico come Machtstaat e la sua aggressività bellicista
Uno storico del livello di Leo Valiani nel suo capolavoro La dissoluzione dell’Austria-Ungheria (9), ritenuto di capitale importanza per la comprensione della fine della Duplice Monarchia, individua la causa prima della sua caduta in un assetto politico ed istituzionale d’impronta feudale e dinastica, ormai superato dai tempi, accompagnato da una politica estera aggressiva. Egli cita in proposito le parole di un protagonista della Finis Austriae, il ministro degli esteri imperiale Istvàn Buriàn, il quale osservava che il tracollo dell’impero giungeva quale il «frutto di 50 anni di cattiva politica anacronistica»
L’impero era definibile quale un Machtstaat, in cui l’elemento coesivo era rappresentato dall’esercito e dalla volontà espansionistica. Come aveva osservato a fine Ottocento l’allora ministro degli Esteri imperiale, il conte Kàlnoky, la monarchia asburgica si era formata e sviluppata più quale Macht indirizzato aggressivamente verso l’esterno che quale Staat predestinato ad organizzarsi internamente.
Secondo il pensiero di Valiani, la Duplice Monarchia avrebbe quindi rappresentato uno stato con un apparato istituzionale arcaico sovrapposto ad un molteplice troppo eterogeneo socialmente ed etnicamente, che cercava di compensare le tensioni ed i contrasti intestini con la snazionalizzazione oppressiva al suo interno e la reazione aggressiva verso il mondo esterno. Il Valiani infatti ricorda come il governo imperiale, posto dinanzi all’alternativa fra un piano di riforme e la guerra, abbia consapevolmente scelto quest’ultima.
La repressione dello sciopero di Trieste, avvenuta con violenza sproposita per il timore delle autorità imperiali nei confronti dell’irredentismo italiano e decisiva nel determinare i propositi bellicisti di von Hötzendorf, è un evento storico che corrisponde perfettamente all’interpretazione del Valiani sull’impero come Machtstaat.
Note
1) A. J. MAY, The Passing of the Hapsburg Monarchy. 1914-1918, Philadelphia (Penn.) 1966.
2) Sulla questione del socialismo giuliano in generale e dello sciopero del Lloyd di Trieste, esistono alcuni testi basilari: A. AGNELLI, Questione nazionale e socialismo. Contributi al pensiero di Karl Renner e Otto Bauer, Bologna, Il Mulino, 1969; G. PIEMONTESE, Il movimento operaio a Trieste dalle origini alla prima guerra mondiale, Udine, 1961; E. MASERATI, Il movimento operaio a Trieste dalle origini alla Prima guerra mondiale, Milano, 1973; M. GOBESSI (a cura di), 1902 – 2000 La lotta dei fuochisti del Lloyd Austriaco, Trieste 2002.
3) Alcuni riferimenti bibliografici. G. SPADOLINI, I repubblicani dopo l’Unità, Firenze 1972; M. GARBARI, Matteo Renato Imbriani e l'”Italia irredenta”, in Il Parlamento italiano, 1861-1988, Milano 1989.
4) G. VOLPE, Italia moderna, Firenze 1973.
5) E. COLLOTTI, Irredentismo e socialismo in Cesare Battisti, in «Studi Storici», IX (1968); sul rapporto e confronto fra Battisti ed i socialisti della Venezia Giulia E. APIH, Cesare Battisti e i socialisti adriatici, in Atti del Convegno di studi su Cesare Battisti, Trento 25-26-27 marzo 1977, nel quadro delle manifestazioni del centenario della nascita di Cesare Battisti, Trento 1979]. Ad esempio, uno dei capi socialisti dell’Istria, Giuseppe Tuntar, parlò apertamente in uno suo scritto «dell’impotenza delle popolazioni italiane della Venezia Giulia di opporsi alla slavizzazione e alla germanizzazione in corso», azione di cui egli era testimone diretto e ben consapevole [G. TUNTAR, Socialismo e questioni nazionali in Istria, Pola 1905.
6) Per il socialismo italiano della Venezia Giulia da fine Ottocento sino alla prima guerra mondiale è fondamentale il testo di M. CATTARUZZA, Socialismo adriatico. La socialdemocrazia di lingua italiana nei territori costieri della Monarchia asburgica: 1888-1915, Bari-Roma 1998.
7) Su questo punto specifico si potrebbero citare fonti e testi a centinaia e centinaia. Per brevità ci si limita a quanto afferma un illustre storico, originario dell’Istria, E. Sestan, Venezia Giulia. Lineamenti di una storia etnica e culturale, Udine 1997, p. 93: «il punto di svantaggio di avere la cittadinanza del regno d’Italia, che era motivo sufficiente perché le autorità austriache facessero il viso dell’arme e quando credessero opportuno, intervenissero con provvedimenti di sfratto forzoso, con i più futili pretesti; 35 mila circa sarebbero state queste espulsioni di italiani regnicoli nel decennio dal 1903 al 1913, fino cioè ai famosi decreti del luogotenente di Trieste principe Corrado di Hohenlohe».
8) L. SONDHAUS, Franz Conrad Von Hötzendorf: Architect of the Apocalypse, London 2000.
9) L. VALIANI, La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, Milano 1966.